Qualsiasi iniziativa umana su grande scala, per quanto benintenzionata, si porta inevitabilmente dietro errori, truffe, crimini e doppiezze.
Non fa eccezione la transizione ecologica ed energetica, che di sviluppi controproducenti e vicoli ciechi ne ha visti diversi in questi anni.
Uno dei più clamorosi è stato il programma di coltivazione di mais per ricavarne etanolo come combustibile per le auto, portato avanti negli Usa dal 2005 in poi, imitando quelli di paesi come Brasile e India.
Lo scopo ufficiale era nobile: ridurre le emissioni di inquinanti e di CO2 dal petrolio, oltre che eliminare l’uso dell’antidetonante di sintesi MTBE, che è tossico, in favore dell’etanolo impiegato allo stesso scopo.
La principale ragione della scelta, per molti, però, era fornire agli agricoltori del Midwest, elettori del presidente George Bush sotto il cui mandato il programma fu lanciato, un nuovo e più remunerativo mercato per il loro mais, grazie agli incentivi concessi per non far costare questo carburante più della benzina.
Il risultato è stato che se nel 2000 si producevano negli Usa solo 400mila tonnellate di etanolo agricolo, nel 2019 si è toccato il picco con 4 milioni di tonnellate, prodotte occupando circa 10 milioni di ettari di terreno: quell’anno la metà del mais americano, in pratica è stato mangiato non da uomini o animali, ma dai motori delle auto.
Un successone! E quante emissioni di CO2 ha fatto risparmiare?
In realtà le ha addirittura aumentate, secondo il più recente studio in proposito, condotto dall’ecologo Tyler Lark della Università del Wisconsin–Madison: coltivare mais per farne etanolo incrementa di circa il 24% le emissioni di CO2, oltre che danneggiare terreni e acque con l’inquinamento.
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