La pandemia di COVID-19 ha confermato fin qui due cose che gli attivisti ambientalisti dicono da molto tempo. La prima è che per diminuire significativamente la concentrazione di gas serra nell’atmosfera, come richiederebbero gli obiettivi internazionali fissati per contrastare il riscaldamento globale, servono interventi molto più radicali di quelli portati avanti finora sulla spinta delle conferenze come la Cop21 di Parigi. La seconda è che gli sforzi individuali per ridurre l’impatto delle attività umane sull’atmosfera, per quanto lodevoli, servono a poco.
L’effetto della pandemia sulle emissioni di CO2
Già a febbraio si era cominciato a parlare dell’effetto delle restrizioni agli spostamenti e alle attività produttive per contenere i contagi da coronavirus (SARS-CoV-2) sull’inquinamento atmosferico. Si è visto prima con le fabbriche cinesi, che hanno interrotto o rallentato la produzione, poi con le automobili private in Europa e negli Stati Uniti, che sono rimaste parcheggiate per settimane, e con i voli cancellati in tutto il mondo.
Il 19 maggio sulla rivista scientifica Nature Climate Change è stato pubblicato il primo studio sugli effetti della pandemia sulle emissioni di anidride carbonica (CO2), il principale gas responsabile dell’effetto serra e del riscaldamento climatico. Lo studio, realizzato da 13 noti esperti di scienza ambientale di diverse parti del mondo, stima quanto si sia effettivamente ridotta la quantità di emissioni di CO2 dall’inizio dell’anno alla fine di aprile: di più di un miliardo di tonnellate rispetto all’anno scorso. Nel periodo compreso tra il primo gennaio e il 30 aprile, il 7 aprile è stato il giorno in cui si è emessa meno anidride carbonica rispetto allo stesso giorno del 2019: il calo giornaliero mondiale è arrivato al 17 per cento. Da fine marzo a fine aprile il calo è sempre stato superiore al 15 per cento rispetto all’anno scorso.
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